A Rosa Francesca
Devo
partire da lì. Dai tuoi piedi composti e allineati ma senza scarpe. La loro
forma sapevo essere importante e ben
delineata, il collo disegnato alto, un
tempo messo in evidenza dalle scarpe col
tacco largo, senza gonfiori. A volte te li avevo lavati, asciugati. Dai tuoi
piedi si poteva capire quanta determinazione
hai messo nel camminare lungo i tuoi giorni; infaticabile ti spostavi da
una stanza all’altra, il tuo era un movimento preciso, senza sbandamenti:
sapevi dove andare e cosa fare. Piedi che hanno portato la tua persona un tempo
alta e forte, che sorreggevano ancora una struttura precisa nell’ossatura anche
se ridotta nel lungo e svuotata nel largo: basi di quelle che erano state due colonne doriche. Anche tu eri in qualche modo così: combattente,
protesa alla vicende della vita, porto di tutti quelli che volevano far sosta
nel cuore o nel corpo.
Se ti penso li rivedo i tuoi piedi perché,
ormai, non potrò dimenticare quegli
ultimi istanti dove, guardandoti ferma, muta, orizzontale, capivo che non ti avrei vista più
alzarti, muoverti e fare. Questo è il
verbo che più ti rappresenta: il tuo è sempre stato un fare in prima persona.
Anch’io adesso volevo fare tutto quello
che si doveva, momento per momento anche negli ultimi passaggi. Ti hanno
sollevata, spostata con metodo e
depositata in una scatola di legno ben
rivestita di un drappo soffice, lieve,
bianco panna.
Ho guardato che tutto fosse a posto: il vestito di
lana leggera con fiori che sembravano promettere solo cose belle, ma la sera
prima quanta neve era scesa a fare silenzio. Le tue mani un tempo più provate
dai lavori domestici ma ora lisce e asciutte con le unghie ovali e chiare, ben
deposte lungo i tuoi fianchi.
Il tuo viso (il tuo viso mamma …) segnava come un
piccolo sorriso artefatto; la fronte
come una collina pallida che si faceva osservare e, a nascondere il tuo male,
un foulard di seta colorata con rigagnoli
rossi quasi a voler togliere la
tristezza del momento, ma senza
riuscirci.
Una corona del rosario, non quella da te consumata e
persa per ironia della sorte proprio gli ultimi giorni non si sa come, ma una
corona nuova che hai tenuto tra le mani
nello scorrere delle tue manciate
di ore finali per noi.
Una immagine del Crocefisso: sapevo bene le tue devozioni.
Si può chiudere? Si, si può chiudere, ho risposto
con voce ferma. Tutto quello che si doveva fare volevo fosse fatto nel migliore
dei modi, con precisione, con fedeltà, con bellezza.
Passo a passo, secondo consumate consuetudini a me
non note, tutto in ordine, momento per momento fino all’epilogo immaginato
anche un po’ ma sempre rimesso nell’ordine delle cose che non spetta a noi
decidere.
Alzando lo sguardo ho visto gente ma era un contorno, un paesaggio dipinto dietro ad
un ritratto: il tuo, fatto di colori intensi, caldi di luce.
In primo piano
tu e silenzii non privi di
suoni, spazii di tempo allargato per
accoglierti bene: così voglio che sia.
Il tempo per te qui finito ti riprende per altro tempo.
Senza ore, senza limiti, senza rughe.
Dentro me
scorrono fiumi in piena, sento battere incessante pioggia: rumori naturali, la Natura mi toglie qualcosa a cui appartengo per unione e poi
per divisione di cellule. Potrà mai
restituirmela in altri modi, sotto altre forme? O invece resterà, non so
come, a me dentro per poterla ancor
meglio sentire ogni volta che ne avrò vivo il desiderio?
Mi hai detto tre giorni prima: “Tutto passa”. E io ”Mamma, ma se tutto passa, cosa resta?”
Ci hai pensato un po’ e mi hai risposto: “Il bene.
Quello che fai resta”.
Erano già momenti segnati da un certo dolore che ti
leggevo in viso. E queste battute
scambiate così, senza un vero pretesto mi
hanno portato a pensare all’Ecclesiaste
ma soprattutto a credere che mi stavi lasciando la tua eredità morale.
In
tre parole scarne quanto mi hai detto. Ho sentito lo spessore della parola
giusta come una coperta di lana che messa addosso ti fa stare meglio, anche se
il momento non era bello ma triste. Il tuo dire forse non era casuale ma voluto, la tua esperienza
trapassava di calore ogni cosa e, come quando stai salutando qualcuno a te caro
che parte, tutto cerchi di cogliere, tutto vorresti dire e solo con gli
sguardi, in parte, ti sembra di poterlo fare.
Avevi iniziato la ritirata e da tempo passavi ore
sul divano nel tuo angolo. Senza annoiarti, in sofferenze da te ben arginate,
alternate a momenti di quasi normalità. Ti godevi la postazione abbandonando
sempre più la tua mobilità. Gli ultimi
giorni ti sei goduta un po’ di più il letto. E, in un’occasione mi hai detto:
“dove vado a stare meglio di qui?”
Per i puri, le anime semplici l’essenziale è davvero
poco.
La
tua testa chiedeva di vivere anche se il corpo, svuotandosi delle sue preziose
energie ti stava lasciando.
Anche le tue mani alzate hanno chiesto di vivere il sabato mattina. Le
hai aperte alzandole a calice verso l’alto in un gesto che chiedeva, quasi
implorando di continuare a resistere.
La veglia, l’attesa del nuovo evento, è finita. Ti
ho lasciata e dopo poco mi hanno telefonato che non eri più.
Ho calpestato neve già alta per arrivare a casa.
Notte: dal cielo chiaro ancora neve scendeva. Un sepolcro bianco e muto
preparato per noi che sappiamo ci tocca andare avanti senza te.
La sera prima, noi tutti intorno come una corolla di
petali chiari: la tua discendenza si prepara alle consegne. E poi, con la
coscienza che qualcosa se ne stavo andando ti ho detto:”Mamma, sei bella e
buona, non ci lasciare” e, accarezzandoti la guancia destra, ho sentito la mano
un po’ umida. Ti avevo asciugato una ed
una sola lacrima.
Poche sono state in seguito le tue parole, ti sei
consegnata al Lassù. Pensavo alla nascita. Qualcosa di simile appariva, un
incontro, in direzione inversa ma con
punti in comune. La partenza o l’arrivo ad una meta, un viaggio verso la
stazione non scelta, da raggiungere
anche lasciandosi andare.
Non una parola di troppo, non una di meno:
l’equilibrio dell’essere sei ora.
Aspettavamo la primavera
Avrei voluto veder vestito
di primi fiori di primavera
un albero con te.
Ricordi?
Saresti uscita, sul tuo sdraio al sole
ginocchia
scoperte,
nodi di ramo longevo.
Braccia scarne a riposar sul ventre,
parentesi chiuse sul grembiule lindo.
Il tuo viso acceso di rinnovati colori.
Ti avrei parlato e
tu risposto.
Me ne sarei andata
per ritrovarti ancora.
Ma ora?
24 marzo 2009